di Alberto Zanetti
Il piccolo centro di Guiglia e il suo bel castello sull’Appennino modenese sono diventati da qualche anno sede di un evento culturale internazionale grazie a GU.PHO., il festival dedicato alla fotografia vernacolare. La quinta edizione si svolgerà per due weekend dal 20 al 29 giugno tra ospiti prestigiosi, mostre, talk, letture portfolio, workshop e attività editoriali.
Schiacciati da un’attualità davvero terribile, non possiamo che partire dal tema 2025 del vostro festival: “Guerra e pace”. Perché l’avete scelto?
La fotografia è da sempre un ottimo pretesto per stimolare riflessioni sulle questioni del contemporaneo, soprattutto quando si affrontano temi delicati e controversi. In questo momento storico, la guerra è un argomento che ci riguarda sempre più da vicino e la fotografia rappresenta un’opportunità preziosa per affrontarlo accogliendone la complessità, non tanto per offrire risposte, quanto per generare nuove domande.
Fin dalle origini, la fotografia si è confrontata con il conflitto, affermandosi come uno dei linguaggi privilegiati per raccontarlo, documentarlo, interpretarlo. Ancora oggi ci si interroga sul ruolo che le immagini possono — o non possono — avere di fronte alla violenza, al dolore, alla guerra.
Per questo motivo abbiamo invitato il Vernacular Social Club di Parigi a curare la mostra principale del festival, dedicata al tema “Guerra e Pace”. Il percorso espositivo presenta una selezione di immagini vernacolari donate dai membri del collettivo, con un’attenzione particolare al fenomeno del cosiddetto “turismo di guerra” — una pratica controversa che apre ulteriori interrogativi su come oggi anche il conflitto possa diventare oggetto di consumo.

Fotografia vernacolare… potresti piegarla all’uomo della strada che ne è poi anche il… “protagonista”?
La fotografia vernacolare è quella familiare, domestica, che troviamo nel cassetto della nonna. Non nasce con un’intenzione artistica, ma con il desiderio di conservare un ricordo, immortalare un momento speciale, documentare un evento simbolico. A scattare non è un professionista, ma un amatore — spesso un uomo, dato che anche l’accesso al gesto fotografico rifletteva dinamiche di genere che meritano attenzione.
Eppure, come scriveva Joachim Schmid — uno dei pionieri assoluti della pratica artistica basata sul riuso di immagini preesistenti — queste fotografie possiedono un potenziale espressivo enorme, spesso ignoto persino a chi le ha scattate.
Proprio da questa consapevolezza nasce una delle tendenze più interessanti della fotografia contemporanea: quella dei cosiddetti “fotografi senza macchina fotografica”. Artisti e artiste visivi che, in risposta all’ipertrofia delle immagini nella nostra epoca, scelgono di non produrre nuove fotografie, ma di lavorare esclusivamente con materiali esistenti, riutilizzandoli in un’ottica di riciclo creativo e dando loro nuova vita.

Le migliori fotografie (o forse tutte…) raccontano sempre molto di più di quello che rappresentano. Che ne pensi?
Le fotografie sono frammenti di spazio e di tempo: non ci raccontano cosa è accaduto prima, né cosa succederà dopo. In questo senso somigliano molto alla poesia, perché lasciano dei vuoti che lo spettatore è chiamato a colmare con la propria immaginazione.
È proprio per questo che le fotografie, pur rimanendo sempre le stesse, cambiano continuamente: il loro significato è profondamente legato al momento in cui vengono guardate e all’esperienza personale di chi le osserva.
Troviamo questo aspetto estremamente affascinante. Ci capita spesso di riprendere in mano un libro fotografico dopo molto tempo e di vedere cose completamente diverse — anche se le immagini sono identiche, nella stessa sequenza.
Le fotografie sono immobili, eppure in costante trasformazione.

Quali artisti e iniziative vuoi segnalarci tra le tante che caratterizzano questa edizione?
Siamo molto soddisfatti di tutti i lavori presenti in mostra in questa edizione, tanto che risulta difficile indicare delle preferenze. Tuttavia, ci teniamo a segnalare in particolare le due mostre di Matthieu Nicol, tra cui “Fashion Army”, presentata lo scorso anno al festival Les Rencontres d’Arles, uno dei più importanti appuntamenti internazionali dedicati alla fotografia. Si tratta di due progetti realizzati a partire da un archivio dell’esercito statunitense, che mettono in relazione con la guerra rispettivamente cibo e moda, offrendo uno sguardo inedito e spiazzante su materiali d’archivio militari.
Merita una menzione anche “Hayal & Hakikat” (Sogno e Realtà) di Cemre Yeşil Gönenli, un lavoro basato su fotografie d’archivio risalenti all’Impero Ottomano. L’artista trasforma un documento storico di classificazione visiva in una riflessione tanto brutale quanto lucida su temi come giustizia, amnistia e libertà.
Segnaliamo inoltre l’incontro con Tiane Doan na Champassak, artista visivo francese di origini asiatiche, che presenterà un’installazione inedita costruita attorno a un archivio dimenticato: oltre 100 diapositive che ritraggono una famiglia thailandese mentre posa orgogliosamente con la propria Mercedes. Sarà anche un’occasione per approfondire la sua pratica artistica, da sempre legata all’uso degli archivi e alla forma del libro d’artista.
Infine, da non perdere il Midnight Spice Picture Show di Erik Kessels, una serata speciale riservata al pubblico maggiorenne, in cui l’artista presenterà le sue opere più provocatorie e — come sempre — sorprendentemente geniali.

Che rapporto avete con Guiglia e il territorio che vi ospita? Cosa porta in dote al festival?
Guiglia è la città natale di Sergio Smerieri, ideatore del festival. Marcello, invece, ha sempre avuto un legame affettivo con questo territorio: i suoi nonni paterni vivevano a Vignola, mentre quelli materni avevano una casa a Zocca, poco distante da Guiglia, dove da bambino trascorreva le estati. Guiglia si trovava esattamente a metà tra i due luoghi, ed è sempre stata parte della sua geografia personale. Giorgia, invece, è stata “adottata” dal paese grazie all’esperienza di GU.PHO. e alla fotografia.
Trascorrere molto tempo a stretto contatto con il territorio e con la comunità locale ha fatto sentire Marcello e Giorgia sempre più a casa, anno dopo anno.
Ciò che troviamo particolarmente interessante è il dialogo che si crea tra il festival e il paese: da una parte, il festival porta con sé un respiro internazionale; dall’altra, Guiglia restituisce una dimensione più vernacolare della vita, fatta di tempi distesi e relazioni autentiche. Per noi, è diventata una sorta di antidoto alla frenesia del mondo contemporaneo.

In questi anni di attività quali storie e persone che avete incontrato vi hanno fatto dire: “ne è valsa la pena”?
È difficile individuare un episodio preciso, perché i momenti significativi sono stati davvero tanti. Di certo possiamo dire che ogni anno l’organizzazione del festival è un’impresa impegnativa, spesso faticosa e stressante. Eppure, quando finalmente arrivano i giorni del festival, tutte le difficoltà sembrano svanire: viviamo giornate che, senza esagerare, sono tra le più belle dell’anno.
Il castello, il pubblico, gli addetti ai lavori, gli artisti e le artiste, l’intero paese: si crea un’atmosfera unica, condivisa e autentica, difficilmente replicabile altrove. È proprio in quei giorni magici che ritroviamo l’energia e l’entusiasmo per iniziare a pensare all’edizione successiva.
Immagine in evidenza: Tiane Doan Na Champassak, The Clouds of Unconscious