Stare a casa, 10 dischi
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Restare a casa, 10 dischi precauzionali da ascoltare questa settimana #9

di Max Cavassa

Come saprete, fino al 1 marzo in Emilia Romagna e nella maggior parte delle regioni del Nord Italia sono sospesi manifestazioni ed eventi, quindi festival, concerti, spettacoli teatrali, proiezioni di film. E i musei? Chiusi anche loro. «Stare in casa è qualcosa di spettacolare» cantava qualcuno. E allora se divano dev’essere, mettiamo su un po’ di musica.

Fontaines D.C. – “Dogrel” (2019)
Volevate andare a un concerto stasera ma non si può, non vi rimane che pogare a casa e sfogare un po’ d’incazzatura repressa con questo straordinario debutto dei dubliners Fontaines D.C., undici pezzi che ondeggiano tra punk, post punk e folk punk, basta che ci sia il punk e qui ce n’è, insieme a genio, urgenza, visionarietà.

 

Beck – “Mutations” (1998)
Nella ricca discografia di Beck Hansen si può scegliere quasi a occhi chiusi (orecchie spalancate, invece) e saltare da un genere all’altro, senza problemi. “Mutations” è uno dei suoi album più acustici e introspettivi, dove il folk straluna verso il pop come poche altre volte nella storia della musica. Per questi momenti un po’ così consigliamo in particolare “We Live Again”, titolo piuttosto ottimista, testo meno, musica inarrivabile.

 

Damon Albarn – “Dr. Dee” (2012)
John Dee fu matematico, geografo, alchimista, astrologo, astronomo inglese, presso la corte della regina Elisabetta I. Ne sapeva tantissimo anche di occultismo, divinazione e filosofia ermetica. Albarn, voce e mente dei Blur, Gorillaz e Good Bad & The Queen, crea intorno a questa poliedrica e misteriosa figura un’opera originale che s’ispira alla musica rinascimentale, con il tocco di puro genio del poliedrico (a proposito) Albarn.

 

Wire – “154” (1979)
“154” è il terzo album della santissima triade “Pink Flag”, “Chairs Missing” e appunto “154”. Tre album che si possono definire post punk, anche se il primo, “Pink Flag” è del ’77, in piena esplosione punk. Ma questa definizione “post” veste alla perfezione con i Wire, un gruppo che è sempre andato oltre, anche ora che continuano a fare dischi, bellissimi. “154” è apocalittico, occhio, da maneggiare con cura psicologica.

 

Supertramp – “Breakfast in America” (1979)
Ci sono dei momenti in cui senti che c’è bisogno dell’instant classic, quei dischi dove tutto fila alla perfezione, dove a un certo momento, dopo l’ennesimo capolavoro che segue un altro capolavoro, ti viene il dubbio di stare ascoltando un Best of. E invece. In “Breakfast in America” c’è l’incontro tra una sorta di sapienza tardo progressive britannica e l’FM americana, s’incontrano a colazione e non si lasciano più.

 

Morcheeba – “Big Calm” (1998)
Non uscite da qualche giorno e c’è bisogno di trip-hop e forse di malt & hops (senza forse). Il trip-hop dei Morcheeba nacque a Londra, quindi periferico alla Bristol dei Massive Attack, Tricky, Portishead. Non vedevamo l’ora di mettere Londra un po’ in periferia, bisogna dirlo. “Big calm”: sembra un’esortazione, questa del duo che ha scritto con questo album una delle più belle pagine degli anni Novanta.

 

Paolo Conte – “900” (1992)
Anche in tempi normali la voglia di ascoltare questo disco dell’avvocato di Asti è sempre enorme. È come se ci avesse spinto tutte le musiche degli anni Dieci e Venti dello scorso secolo, riviste attraverso il suo sguardo obliquo e sornione. Quando ascoltate “Brillantina Bengalese”, provate a spalmarvi del gel e a ballare quel charleston nel tinello, magari marron, per rispettare la poetica contiana.

 

Jamiroquai – “Travelling Without Moving” (1996)
A un certo punto, dopo la metà degli anni ’80, salì alla ribalta un genere chiamato acid jazz, che provava a riverniciare il funky, la fusion e la disco music. Punta di diamante di questa corrente fu il grande Jamiro, uno che farebbe venire voglia di ballare anche a un nostro amico che se lo conosceste direste ma zio canta che palo! Insomma, approfittatene di questo concentrato adrenalinico, Alright?

 

Manu Chao – “Sibérie m’était contéee” (2004)
Manu lo conoscono tutti, lo riconoscono tutti. Questo disco non è tra quelli che lo hanno fatto riconoscere, ma pazienza. È il disco del suo ritorno a Parigi, dopo anni on the road, dopo “Clandestino” e l’essere diventato un simbolo no-global, con annessi e connessi. Parigi è fredda, è la Sibérie, la sua Sibérie, il suo lavoro più intimo e (forse) più vero, sempre inevitabilmente Chao-style.

 

Love – “Forever Changes” (1967)
Ci siete da un po’ su quel divano, vi meritate della psichedelia, che aiuti a cercare e possibilmente trovare altri mondi. “Forever changes” è quello che fa al caso vostro e, in assoluto, una delle più fantasmagoriche sequenze musicali dello scorso secolo, un lavoro ancora misterioso e non del tutto esplorato, dopo migliaia di ascolti.


L’immagine in evidenza ha il solo scopo di presentare l’articolo


(24 febbraio 2020)