Antonio Rezza
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Antonio Rezza: Covid? No, grazie

Al termine di “Pitecus” Rezza ha rivolto l’invito a una “obiezione di coscienza”. Un j’accuse contro l’arte sotto tutela (di Stato), ma forse anche qualcos’altro

di Kos Tedde

Lo scorso 15 luglio Antonio Rezza è tornato a Reggio Emilia (il giorno successivo era a Gualtieri). In scena il “classico” Pitecus: “Gidio, simo noi”.
Sì, simo sempre noi. Questa volta però al termine della perfomance, nel mezzo di applausi e saluti, Antonio ha lanciato una proposta, una provocazione, addirittura una chiamata alla “obiezione di coscienza” rivolta a tutti gli operatori del mondo dello spettacolo e della cultura. Un controcanto rispetto all’audio-messaggio diffuso prima dello spettacolo stesso che richiama l’attenzione dei pubblici di tutta Italia sulla difficile e insostenibile situazione dei “lavoratori” della cultura in questo frangente e chiede a società civile, Stato e mondo politico di sostenere il settore in maniera strutturale.

L’invito a opporsi ai temi della “pandemia”

L’invito di Rezza è quello a opporsi a qualsiasi utilizzo di temi e forme della “pandemia” nelle future creazioni artistiche. Per non piegarsi alle lusinghe di un’attualità facile e totalizzante e di uno Stato che, forte del suo ruolo di tutore, sovvenzionatore e “salvatore”, potrebbe in qualche modo influenzare pesantemente la produzione dopo aver condizionato, a causa dell’emergenza, la vita dell’intera popolazione.

Che questo “invito alla responsabilità” arrivi dall’alfiere, insieme a Flavia Mastrella, del “teatro incivile”, da una figura – nonostante i recenti e prestigiosi riconoscimenti – tutto sommato unica e isolata, sorprende e incrina un po’ l’unanimismo da “ripartenza”.

Antonio Rezza
Antonio Rezza in “Pitecus”

Pecché, peqqualemotivo?

Pecché, si chiederebbe Gidio… peqqualemotivo? Proviamo ad avanzare alcune ipotesi:

  1. Rezza sembra aver voluto integrare il comunicato di inizio spettacolo. Giusta la rivendicazioni dei diritti, l’inserimento dell’arte e della cultura nel novero della quotidianità economica e di mercato. Ma attenti a non ridurla (solo) a questo, a sottovalutare ciò che essa ha di residuale, inespresso, non conciliato: “un po’ di possibile sennò soffoco”. E attenti, soprattutto, allo scambio libertà/tutele.
  2. A Rezza non servivano particolari doti profetiche. L’emergenza virus accellererà una tendenza dominante da almeno vent’anni. Quella delle proposte modellate sulle indicazioni di bandi pubblici e privati, sulla logica degli assessorati, sull’ideologia dell’immediatezza, evento o festival che sia. La cultura che pesca dalle tragedie, dalla memoria, dall’attualità, dalle narrazioni, dagli anniversari, dal vintage e dal retrò, dai localismi. Pronta a sfornare in serie e a occupare spazi. Senza il bisogno di esplicite richieste della committenza perché l’adattamento e la (de)formazione strutturano già i cervelli.
  3. Pubblico e Stato coincidono? Entrambi sono sovrapponibili al mercato o, in qualche maniera residuale, se ne smarcano? Le istituzioni possono essere il “teatro” di spinte anti-istituzionali? Qui certezze proprio non ce ne sono: l’arte da sempre si misura con l’ordine costituito, spesso, anzi, ne è il pezzo pregiato. La stessa (e sacrosanta) forma rivendicativa espressa da chi di cultura “ci vive” sembra sottintendere che tutto debba esaurirsi nella prospettiva della concessione e nell’ottica di uno Stato o di un Governo che (nel bene e nel male…) satura ogni spazio.
  4. Oltre all’abbraccio dello Stato c’è anche quello della Cultura: due nomi di uno stesso movimento. L’intervento di Rezza, appellandosi all’indipendenza e alla libertà creativa dell’artista, parla da e si rivolge a un mondo (spettatori, produttori, finanziatori, enti) che fa pienamente parte di questa dimensione invalicabile, priva di un Fuori. Quella della Cultura, appunto. Che ammette solo diversivi, concretezza e Realpolitik. O, forse, qualcosa sta accadendo sotto i nostri occhi pieni, stanchi e distratti?

Non sappiamo se le persone presenti l’altra sera a Reggio Emilia siano state in qualche modo turbate dal messaggio. Nemmeno se esso sarà raccolto dal mondo artistico. Di certo la Covid-distopia evocata da Rezza (probabilmente composta, aggiungiamo noi, da una moltitudine di fiction, documentari, narrazioni, concorsi, canzoni, poesie, installazioni site specif, memoriali, bandi europei, call to action and for papers, ecc.) già incombe su di noi.

foto in evidenza di Franco Falasca



“Simo noi”. Intervista ad Antonio Rezza e Flavia Mastrella